Falsi miti e falsa scienza

Uno dei fattori principali della distanza tra vitigni resistenti e il consumatore contemporaneo è stata la mis-informazione protratta lungo gli anni centrali dello scorso secolo, indirizzata a screditare un certo tipo di viticoltura.1 Una campagna, questa, che aveva un onorevole scopo, ovvero quello di proteggere il vigneto europeo e la sua tradizione dall’invasione di vino scadente ed omologato da vitigni sconosciuti, con cui è stato ripopolata la vigna dopo gli attacchi di peronospora, oidio e fillossera. Gli Ibridi Produttori Diretti furono i principali protagonisti di questo fenomeno, e sebbene gli attuali vitigni resistenti siano decisamente meno problematici dei loro progenitori, capita ancora spesso che alcuni luoghi comuni ritornino a galla, rendendo più problematica la comunicazione del mondo dei PIWI.

Questa mis-informazione si articola fondamentalmente su quattro piani, che hanno avuto pesi differenti, a seconda del momento storico:

  1. PIWI=OGM.
  2. I vitigni resistenti producono troppo metanolo in fermentazione, sono dannosi per la salute.
  3. I vitigni resistenti contengono malvidina dicogluside.
  4. I vitigni resistenti sanno solo di foxy.

Con ordine si andrà a risolvere ognuno di questi punti, cercando quale sia l’effettivo contenuto di verità in essi.

  1. Che i vini ottenuti da varietà incrociate siano equiparabili agli organismi geneticamente modificati è un problema fondamentalmente attuale, dovuto al terrore atavico che tale acronimo suscita. Per definizione, i vitigni resistenti non richiedono null’altro che un intervento esterno per favorire e garantire un’impollinazione che potrebbe avvenire in natura, e che avviene di fatto in natura, ma con un’efficienza e una precisione inferiore. Che la cisgenesi e il genome editing2 possano rappresentare un futuro non troppo lontano, è decisamente l’opinione più diffusa tra i tecnici della genomica, ma ad oggi, l’impollinazione pilotata non pone nessun tipo di problema a livello di intervento artificiale sul patrimonio genetico della vite.
  2. Che i vini ottenuti da varietà resistenti siano a rischio di un elevato contenuto di metanolo è forse il problema principale che ha allontanato i consumatori dal prodotto. La causa sarebbe da ricercarsi nel maggiore contenuto di pectine nel frutto delle viti americane rispetto alle uve da vinifera. Il metanolo è dannoso perché, grazie ad un processo chimico chiamato alcol deidrogenasi, produce formaldeide, che è tossica. Esso si trova potenzialmente in tutte le preparazioni alimentari a base di frutta fresca, come i succhi di frutta, in quelle contenenti aspartame, e viene prodotto dall’organismo sotto forma endogena attraverso l’assunzione tutti gli alimenti contenenti pectine e fibre. Il corpo umano, del resto, ha la capacità di metabolizzare senza problemi le quantità di metanolo derivate dal consumo normale di questi alimenti, e in particolar modo quelle contenute nel vino prodotto senza adulterazioni. La sensibilità del consumatore dopo gli scandali del vino al metanolo degli anni ‘80 è sicuramente ancora recettiva a questo tipo di claim, ma la logica vorrebbe che se il problema degli ibridi vietati dopo gli anni ‘30 fosse stata una pericolosa quantità di metanolo, ad essere proibito sarebbe dovuto essere il consumo, non la coltivazione, in ogni caso permessa a scopi sperimentali. Attualmente, pur non rientrando (ancora) nei disciplinari delle DO, i vini prodotti da vitigni resistenti devono sottostare ai limiti di legge per tutte le sostanze ritenute dannose alla salute, quindi oggi, come allora, il problema semplicemente non si pone, dal momento che non ci fu mai il problema di quantità di metanolo nel prodotto finito tali da pregiudicarne realmente la bevibilità. Gli esperimenti condotti per dimostrare questa tesi sono da tempo ritenuti infondati, e le conferenze tenute dal Prof. Attilio Scienza e dal Prof. Fulvio Mattivi in occasione degli ultimi convegni sul tema sono abbastanza chiare nel sottolineare questo aspetto. Le tabelle qui sotto mostrano come dall’osservazione condotta da VCR tra il 2012 e il 2017, nessuno dei vitigni resistenti presi in esame ha dato come risultato valori superiori ai limiti di legge.

CONTENUTO IN ALCOOL METILICO (Quaderni Tecnici, 18 – VCR)

Quaderno tecnico 18; Le varietà resistenti alle malattie. VCR Vivai Cooperativi Rauscedo
  1. La malvidina diglucoside è un antociano, assolutamente non tossico, che è stato utilizzato come marcatore per individuare, nei tagli e negli uvaggi, la presenza di ibridi. Non è altro che un pigmento caratteristico delle viti americane, che non porta con sé nessun problema di tipo salutistico, ma che ancora oggi è sottoposto a dei limiti legislativi (<15mg/l) dovuti proprio alla battaglia contro le varietà resistenti di metà del secolo scorso. Questo retaggio, limitante dal punto di vista produttivo per quanto riguarda i vitigni resistenti odierni a bacca rossa, aveva l’unico scopo nell’individuare la presenza di ibridi o reincroci nei blend, e non è dunque legato a problematiche reali che possano toccare il consumatore.
  2. L’aroma foxy negli ibridi e nei successivi reincroci fu effettivamente il grande problema riscontrato dalla comunità vinicola europea. Non tanto perchè esso fosse presente in ogni varietà frutto di incrocio (semplicemente non è così), ma perchè rappresentava la scarsa qualità del vino prodotto da queste varietà tout court, a prescindere dal marcatore specifico. L’odore di foxy deriva dal furaneolo, dall’antranilato di metile, dal 2-ammino-acetofenone e da altri composti simili, e rappresenta la banalità  aromatica dei vini ottenuti da queste varietà, senza complessità e senza profondità. La presenza di questi composti si deve associare alla presenza del DNA proprio della vitis labrusca, e maggiore è il suo apporto, maggiore sarà la potenza di questa banalità olfattiva nei vini. Ovviamente, il problema del furaneolo si
    presentava in maniera preponderante negli Ibridi Produttori Diretti, dove, come nel caso del rinomato Clinton, non c’era neppure traccia di materiale genetico di V. vinifera. C’è da notare come alcuni incroci, non derivanti da parentali della specie V. labrusca o rotundifolia, già allora non soffrivano questo difetto, o meglio questa mancanza di complessità. A maggior ragione, nel mercato contemporaneo, nessun produttore si sognerebbe neppure di commercializzare un vino banale da uve resistenti, e tutti i produttori che a catalogo hanno inserito vini rossi da varietà resistenti contemporanee si sono detti convinti dell’assenza di tal limite nei loro vini, cosa tra l’altro poi confermata dalle degustazioni svolte. Vero è che nessuno dovrebbe trarre conclusioni affrettate: la presenza dei composti aromatici associati al volpino e
    al cassis sono stati ritrovati anche all’interno dei Pinot Nero borgognoni e nella Ribolla Gialla friulana. Ė ovvio che in questi casi, il corredo aromatico ha stratificazioni e complessità forse irraggiungibili, ma il concetto da affermare con forza è che non è la presenza di questi composti, di per sé, a rappresentare il
    problema, quanto piuttosto l’assenza di altri livelli aromatici che diano spessore al vino, o meglio la loro preponderanza nella palette olfattiva.

In ultima battuta, tengo a sottolineare che non si discute qui la possibilità che questa delegittimazione fosse fortemente voluta, anche, dall’industria chimica che, a quel tempo e con metà del vigneto francese a ibridi (si stimano circa 400 mila ettari attorno al 1950)3, potesse veder sfumare un’ottima fonte di guadagno.4 Non lo si discute da un lato perché non si posseggono prove reali a sostegno di tale tesi, e dall’altro perché, in periodo storico in cui complottismi e interpretazioni fantasiose del mondo sono all’ordine del giorno, nessuno in possesso delle proprie facoltà dovrebbe dare adito a teorie basate su sensazioni. Vero è, sicuramente, che gli interessi delle parti allora erano decisamente meno allineati di oggi, e che il divieto imposto ai vignaioli europei li ha portati, volenti o nolenti, più vicini all’industria farmaceutica di quanto fossero prima.

Fonti

1 Per questo articolo sono state utilizzate in particolar modo le presentazioni del Prof. Mattivi e del Prof. A. Scienza, in occasione della sopracitata premiazione del 2 dicembre 2021 promossa da FEM. Scienza, in quell’occasione, tenne un intervento dal titolo Il meticcio ci salverà, o meglio salverà la viticoltura.

2 La cisgenesi rappresenta la forma artificiale di ibridazione, e consente di trasferire parti di DNA tra individui sessualmente compatibili. Nel caso studio dei vitigni resistenti, ciò significherebbe trasferire i geni di resistenza dalle viti americane o asiatiche nelle cultivar europee senza ilprocesso di impollinazione, con notevole risparmio di tempo e con maggior precisione. Il genome editing, d’altro canto, ha portato il Nobel per laChimica 2020 a Emmanuelle Charpentier e Jennifer Doudna, che sono riuscite a creare una tecnologia in grado di modificare con precisione chirurgica la sequenza del DNA, silenziando, nel caso della vite, i geni sensibili alle malattie, senza dover piùnemmeno basarsi su altre specie compatibili.

3 Sabbatini P., et al., Ibridi di Vitis: storia, status e futuro, Italus Hortus, 20-2, 2013, pp. 33-43

4 Ricordiamo che la viticoltura copre il 3% della superficie agricola europea, e utilizza il 65% di tutti i fungicidi impiegati in agricoltura, equivalenti a 68.000 tonnellate l’anno. (Carraro J., et al., Viaggio nei Vitigni Resistenti, L’enologo, 1-2, 2020, pp. 63-66)

Immagine d’apertura: elaborazione grafica di Luca Gonzato. Grappolo di Cabernet Cortis, foto Julius Kühn-Institut (JKI), Federal Research Centre for Cultivated Plants, Institute for Grapevine Breeding Geilweilerhof – 76833 Siebeldingen, Germany