PIWI: quanto c’è di Vitis vinifera?

Diciamo subito che negli incroci che conosciamo come PIWI, si arriva a superare il 90% di patrimonio genetico di Vitis vinifera. La restante parte arriva da altri sottogeneri di Vitis, genericamente definiti viti selvatiche, le quali hanno donato la loro tolleranza-resistenza alle malattie fungine. Da qui il termine PilzWiderstandsfähige (resistente al fungo) da cui l’acronimo PIWI con il quale sempre più vengono conosciute queste varietà ottenute da incrocio deliberato (ottenuto per impollinazione, selezione dei semi, selezione delle piante ecc., fino alle prove in cantina e alla registrazione varietale).

Nel 2022 è stato pubblicato su Horticulture Research lo studio “Extent of wild–to–crop interspecific introgression in grapevine (Vitis vinifera) as a consequence of resistance breeding and implications for the crop species definition” realizzato da Serena Foria, Gabriele Magris, Irena Jurman, Rachel Schwope, Massimo De Candido, Elisa De Luca, Dragoslav Ivanišević, Michele Morgante, e Gabriele Di Gaspero. Questo studio, riportato in forma integrale a fine post, mostra le differenze di introgressione di Vitis non vinifera in alcune varietà PIWI.

I risultati evidenziano che le varietà resistenti appena rilasciate contengono tra il 76,5% e il 94,8% di DNA Vitis vinifera. È stato scoperto anche che le valutazioni dei vini varietali non sono sempre commisurate alla percentuale di ascendenza e collegamento di Vitis vinifera.
La ricerca ha permesso inoltre di identificare le specie donatrici di resistenze e di definire l’ascendenza selvatica di ognuna.

Negli ultimi due secoli, le specie Vitis nel Midwest e nell’est degli Stati Uniti, Vitis amurensis nell’Asia nord-orientale e Muscadinia rotundifolia hanno fornito geni importanti di resistenza a Plasmopara viticola (Peronospora) e Erysiphe necator (Oidio).
Inizialmente gli ibridi avevano effettivamente una qualità inferiore ma i reincroci che conosciamo, attraverso i vini in commercio, dimostrano l’opposto. Tuttavia i PIWI sono considerati nuove varietà, ibridi interspecifici con linee di introgressione non vinifera.


Si è spesso generalizzato mettendo sullo stesso piano tutti gli incroci, indipendentemente dal grado di introgressione, mentre sarebbe più logico considerare Vitis vinifera gli incroci che arrivano ad avere un’alta percentuale di geni Vitis vinifera. Cosa che peraltro ha fatto l’Autorità tedesca competente prendendo una posizione controcorrente e concedendo la classificazione di V. vinifera alla varietà “Regent” e rimuovendo così lo stigma attorno ai genomi impuri di Vitis. vinifera.

La “quantità” di Vitis vinifera nei diversi ibridi si basa sul presupposto che nel Nord America, gli ibridi erano principalmente incrociati per rinforzarli nelle resistenze. In Europa, le linee di introgressione sono state inizialmente incrociate e poi reincrociate per diverse generazioni con Vitis vinifera con l’obiettivo di migliorare la qualità del vino e mantenendo un livello sufficiente di resistenza alle malattie. Più recentemente si è tornati a reincrociare con il fine di aggiungere altri geni di resistenza in una sorta di “piramidazione” che consenta di avere più fonti di resistenza per lo stesso patogeno.

Gruppo a (Fig.3)
Varietà resistenti con discendenza selvatica della Vitis americana.
La percentuale di Vitis vinifera è mediamente dell’84,0%
Con variazioni tra la percentuale più alta dell’85,2% nel Cabernet Eidos a quella minore dell’82,8% nel Sauvignon Rytos. Il donatore di resistenza è Bianca (il 71,8% di DNA è vinifera).
Per fare un confronto, la varietà Regent ha il 79,8% di DNA vinifera mentre il suo genitore Chambourcin ne ha il 55,9%.

Gruppo d (Fig. 3)
Varietà resistenti con origini selvatiche di Vitis americana e asiatica.
Comprende le varietà che combinano resistenze di diversa origine ottenute in Germania negli anni ’70 e in Serbia negli anni ’80.
L’ascendenza americana della Vitis è stata donata da “Bianca” e quella asiatica dalla linea di “SK77–4/5”. Il genitore Kozma 20-3 deriva dall’incrocio di Sremski Karlovichi 77-4/5 x Bianca.
Dall’incrocio con Kozma 20-3 in ultima linea con Vitis vinifera derivano: Fleurtai, Soreli, Sauvignon Kretos, Cabernet Volos, Merlot Khorus, Merlot Kanthus. La percentuale di DNA vinifera in questo gruppo è aumentato ad una media del 87,1% rispetto al gruppo precedente, che va da un massimo del 90,7% nel “Soreli” al minimo dell’85,2% nel “Merlot Kanthus”. Da sottolineare il fatto che “Bianca” sia stato incrociato con la seconda linea di introgressione prima di essere reincrociata per generare queste varietà.

Gruppo e (Fig. 3)
Varietà resistenti con discendenza da Vitis americana, Vitis asiatica e Vitis Muscadinia.
Incroci con risultati di “piramidazione” di geni di resistenza. Lavori iniziati in Ungheria e Serbia con Vitis Muscadinia nel 1999 ed in Francia e Germania nel 2000 con la combinazione di Muscadinia e viti selvatiche americane.
Artaban e Floréal (incroci interspecifici iscritti in Francia) contengono rispettivamente il 90,1% e il 76,5% di DNA vinifera.
Pinot Iskra e Kersus (incroci UNIUD-VCR), discendenti dal ceppo ungherese-serbo, con Muscadinia, Vitis americana e Vitis asiatica selvatica contengono il 92,2% e il 94,8% di DNA vinifera.


Il dibattito è ancora acceso sull’utilizzo dei PIWI, in particolare da parte di chi ha una visione più conservatrice legata alle varietà tradizionali. È bene ribadire che queste varietà da incrocio interspecifico sono una opportunità di viticoltura più sostenibile e che non vanno a sostituire le varietà tradizionali. Ne hanno però pari dignità in quanto i vini che ne derivano, se degustati alla cieca, non sono identificabili e spesso vengono percepiti addirittura superiori. L’autorizzazione dell’Unione Europea all’inserimento dei PIWI nei vini a Denominazione d’Origine ne ha certificato l’idoneità oltre che la qualità. La Denominazione potrà diventare una possibilità ma non sarà certo questo a decretare il successo dei PIWI. Sempre più il consumatore valuta un vino attraverso altri parametri quali la tipologia di viticoltura condotta, il territorio, la salubrità ecc. più che la sigla DOC in etichetta. Allo stesso tempo il viticoltore che decide di fare un impianto PIWI non sente così forte la necessità della DO.

Da enotecario posso testimoniare come a seguito di una piccola spiegazione di cosa sono i vini PIWI segua spesso uno sguardo tra il dubbioso e il curioso del cliente, ed è comprensibile in quanto tutti sono abituati a certi vini/varietà con direzioni aromatiche abbastanza identificabili ed il “nuovo” spaventa. Poi però, facendo assaggiare qualcosa, generalmente un vino bianco PIWI, ne riscontro il cambio d’espressione che diventa di soddisfazione e interesse.
I PIWI offrono una nuova possibilità anche per il consumatore, quella di scoprire nuovi aromi e una espressività territoriale ancora più vera.
PIWI non è una rivoluzione ma piuttosto l’adeguarsi al cambiamento nel modo migliore disponibile.

Invito il lettore ad approfondire l’argomento attraverso lo studio di seguito riportato.
Grazie agli autori per averlo reso pubblico.