Piwi sì, Piwi no …“se famo du’ spaghi”

Ho lasciato passare 24h dalla mia partecipazione al Convegno dedicato ai Vitigni Resistenti svoltosi al centro Congressi di Bergamo. Avevo bisogno di metabolizzare le impressioni che ne erano venute fuori e provare a scrivere il mio parere con un minimo di lucidità.
L’evento è stato ben organizzato e condotto da Sergio Cantoni con la partecipazione di molti professori ed esperti del settore.

Il dibattito ha offerto uno spaccato sul mondo dei PIWI che ha suscitato prese di posizione diverse. A fine Convegno ho però avuto l’impressione di un Déjà vu, cioè ho risentito le stesse argomentazioni critiche che sentivo 3 o 4 anni fa, con l’aggiunta della questione ingresso nelle DOC. Come se nel frattempo non fossero state iscritte nuove varietà, non fossero già in commercio circa 350 vini e non fosse stata l’annata terribile per la Peronospora.

Ho percepito tanti NO a riguardo dei PIWI, seppur velati da poco convinti “bisogna testarli”, “bisogna valutarli nel tempo” ecc. Provo ad elencarne alcuni e dare il mio modesto parere.

Partiamo dall’immancabile questione del come chiamare queste varietà:
⁃ “PIWI” – NO non va bene. Cosa significa? i kiwi?. Pilzwiderstandsfahig… NOO è impronunciabile e via così con qualche risata.
⁃ “RESISTENTI” – NO non va bene. Non è vero che sono resistenti bisogna chiamarli tolleranti.
Ma ve lo vedete un ristoratore o un enotecario o il vignaiolo stesso che spiega al suo cliente che le uve del suo vino sono TOLLERANTI?.
Come puoi usare Tolleranti nel marketing, che tipo di appeal può avere?, zero. I vini Piwi vanno fatti conoscere in modo comprensibile e venduti. Lo sappiamo tutti che sono tolleranti alle malattie, in modo diverso sia per varietà che per situazione pedoclimatica.
Qualunque viticoltore che volesse valutare i PIWI arriverebbe all’informazione che NON SONO IMMUNI.
Avete una proposta migliore di nome, fatela. Chissà come mai tutti quei professionisti del settore che da anni ci lavorano non ci sono arrivati. Se ancora non esiste una definizione perfetta e condivisa al 100% da tutti è evidente che non c’è!. E allora teniamoci questo PIWI o RESISTENTI perchè il nome con cui definirli non è il nocciolo della questione. Ricordo il professor Scienza dire che potevano anche chiamarsi PIWI e da quel momento credo che tanti che seguono questo settore lo abbiamo percepito come uno sdoganamento della parola. Io li chiamo indifferentemente PIWI o Resistenti, mi piace molto la parola Resistenti per tutti i significati che si porta dietro e perchè italiana, non la considero esagerata se utilizzata per descrivere i vitigni da incrocio interspecifico con proprietà di resistenza alle malattie fungine della vite.

NO anche ai nomi che ricordano i genitori nobili, quindi Merlot Kanthus, Cabernet Volos, Sauvignon Kretos ecc. Su questo aspetto sono d’accordo ma ormai sono state registrate queste varietà e con un minimo di informazione anche il meno attento ne capisce la differenza. Mi auguro che le prossime varietà abbiano nomi di fantasia e già le ultime registrazioni del 2020-2021 lo dimostrano.

Altra questione per cui è meglio dire di NO. Non sono resistenti a tutte le malattie o sono poco resistenti a talune malattie in determinate circostanze.
La ricerca ha fatto passi avanti enormi e forse ne farebbe di più se adeguatamente finanziata ma perchè non valutare ciò che di positivo offrono queste varietà piuttosto che vedere quello che ancora non offrono?. Valutate quanti trattamenti hanno fatto sui vitigni tradizionali e quanti sui PIWI per Peronospora e Oidio. Poi anche qui si è molto generalizzato, forse si dovrebbe parlare specificatamente di questa varietà o di quella. Ognuna ha un suo pedigree.
Voglio poi ricordare la richiesta di resistenza alla Flavescenza e lascio al lettore le sue valutazioni.
Per un attimo mi sono messo nei panni di chi gli incroci li ha fatti e per anni e anni ha lavorato per selezionare in vigna e in cantina quelle tre o quattro varietà, estratte come aghi da un pagliaio tra altre migliaia. Sono giunto alla conclusione che sono dei monaci Zen, io non riuscirei a sentir parlare con superficialità delle varietà geneticamente migliorate che hanno portato a registrazione, i loro figli.

Ma veniamo alla questione più scottante, le Denominazioni. La comunità europea ha deliberato a fine 2021 la possibilità di inserire anche i vitigni PIWI nei disciplinari delle DO. Da noi c’è subito stata una levata di scudi generale. In Francia la varietà Voltis concorre già con una piccola percentuale nella AOC Champagne. Anche durante il convegno l’idea generale era di estrema cautela verso questa possibilità, anzi direi che era più un NO. Così come vi sono state dichiarazioni contrarie anche all’iscrizione di nuove varietà PIWI al Registro Nazionale.
Ora vorrei ricordare che l’Iscrizione a Registro non significa che poi vengano impiantate nel vigneto il giorno dopo. Sono poi le singole regioni a decidere quali varietà mettere in osservazione. Inoltre i programmi di miglioramento genetico dei vari enti italiani sono incentrati sul miglioramento di varietà tipiche di specifiche zone. L’Italia ha il più grande patrimonio di varietà autoctone, il fatto di iscriverne altre migliorate geneticamente non significa prenderne il posto ma offrire un’opzione di viticoltura sostenibile. Oddio ho detto SOSTENIBILE e anche per questo termine arriva un sonoro NO, non va bene per i PIWI. Allora ditemi, in viticoltura cosa si può ritenere sostenibile?. Se c’è riduzione d’uso di fitofarmaci, riduzione di consumo di carburanti per l’uscita con il trattore e quindi riduzione di emissioni e riduzioni di consumo d’acqua oltre che miglioramento generale del vigneto dove andrebbero classificate queste qualità se non sotto il cappello della sostenibilità ambientale?.
Torniamo alle DO. Era un NO. Faccio presente che territori come il Prosecco hanno necessità di vitigni “migliorati” che richiedano meno interventi fitosanitari, penso che lì saranno recepiti così come in altre zone con necessità di miglioramento della convivenza con gli abitanti stessi.
Vi sono poi Denominazioni dove già i vitigni resistenti potrebbero portare un miglioramento qualitativo e andrebbero valutate senza preclusioni ed alla pari di altri vitigni tradizionali o nuovi cloni. Pensate ad esempio al calo di acidità in certe varietà tradizionali oltre che all’aspetto di sostenibilità. Se il problema è che sono 97% vitis vinifera e non 100% vitis vinifera ditelo senza girarci intorno perlomeno il dibattito sarebbe bianco o nero. Verrebbe però da obiettare che la legge li consente e il cavillo dell’art.33 non è che può rimanere lì in eterno.
Io comunque vorrei tranquillizzare chi teme l’entrata dei PIWI nelle DO, chi anche solo con una piccola percentuale ne vede l’ingresso di una entità aliena. In fondo i viticoltori che hanno scelto di coltivare PIWI non lo hanno fatto con l’obiettivo di farci una DOC, i vini li vendono lo stesso e continueranno a venderli, perchè è la qualità e la bontà riconosciuta dal consumatore a farli vendere. Nemmeno l’IGT è così fondamentale, meno della metà dei vini PIWI in commercio la dichiara in etichetta. Una riflessione che forse andrebbe fatta è che per quante barriere e NO si provino a mettere continuerà a crescere la percentuale dei viticoltori che proveranno i PIWI. Siamo solo allo 0,3% della superficie di vigneto Italia quindi dai, abbiate un pochino di fiducia e apertura verso alternative sostenibili di qualità. Non stiamo più parlando di ibridi di prima generazione e sentori foxy ma di re-incroci e uve che definiscono vini che poi conquistano i tre bicchieri del Gambero Rosso e vengono serviti nei ristoranti stellati.
Se vogliamo poi buttare un sasso nel laghetto recintato delle DO bisognerebbe sapere che gli innesti di PIWI degli ultimi tre anni sono stati: 2.464.993 – 2.965.090 – 2.421.125. Dove finiscono tutte quelle uve?. Non è che forse, ipotizzo, ma forse, e appena appena, qualcosa ci finisca già dentro?

Mi spiace aver scritto questo post che ha un sapore amaro e polemico ma ho l’impressione che si cerchi ogni pretesto per non farli diffondere sti PIWI e che si trovino mille motivi per metterli in discussione. Sono però felice d’aver visto i dati di comparazione gustativa della prof.ssa Venturi perchè i vini PIWI sono risultati i più apprezzati. In fondo bisognerebbe iniziare ogni discussione sui PIWI assaggiandoli come prima cosa e capendo che sono vini alla pari degli altri ma con in più un valore di sostenibilità intrinseco.
A seguito dell’assaggio di un PIWI la prima domanda che andrebbe fatta, ed è anche il nocciolo vero della questione Piwi si o Piwi no, è: Vuoi continuare a fare 20 trattamenti, uscire con il trattore, consumare combustibile e acqua ed inquinare per la felicità del pianeta e di chi lì intorno ci vive? Sì o No?.
…Oppure se famo du’ spaghi come cantavano Elio e le Storie Tese nella Terra dei Cachi.